“Lettere a me stessa: dopo la mia prima volta”, Kabi Nagata, trad. di Carlotta Spiga, J-Pop, 2020, 340 pagine, bicromia, brossura, € 16.
Il secondo manga autobiografico di Nagata copre due anni della sua vita e consiste in una serie di 24 lettere che l’autrice scrive a se stessa, su modello dei diari condivisi che alle medie le ragazze adolescenti compilano insieme alle amiche. La periodicità della pubblicazione la costringe a scrivere anche quando non ci sono accadimenti significativi e ciò, sebbene porti a un’opera meno incisiva e tagliente rispetto al primo volume (La mia prima volta), lascia più spazio alle riflessioni della protagonista (per esempio sulla felicità o sull’amicizia) e permette di approfondire il discorso sulla ricerca del proprio posto nel mondo e sull’accettazione di sé. Ormai Nagata ha 29 anni ma conduce una vita da NEET, vive a casa dei suoi genitori e non è ancora riuscita a costruire delle relazioni significative. La prima parte del volume segue i tentativi della protagonista di rendersi indipendente sia attraverso la ricerca di un lavoro stabile e di un appartamento tutto per sé, sia cercando di riallacciare i rapporti con le amiche del liceo e fare nuove conoscenze per allargare la propria rete di supporto. La seconda parte si concentra maggiormente sul rapporto con la sua famiglia e sull’impatto che i suoi manga autobiografici hanno avuto su di loro, oltre che sull’interazione con il pubblico originario del manga, con cui Nagata dialoga esponendo direttamente nel fumetto le sue reazioni alle recensioni e i commenti pubblicati online man mano che la serie procede. Dopo una pausa di riflessione, l’autrice attraversa un periodo particolarmente difficile ma continua a scrivere e disegnare dall’ospedale, regalandoci un “diario nel diario” del suo ultimo ricovero. In generale, il ritmo più lento della narrazione permette di seguire l’altalenarsi dei momenti buoni e dei periodi bui di Nagata, quando ripiomba nella depressione e nei comportamenti autolesivi e si dilunga nell’analisi di quello che prova, servendosi a volte di un linguaggio metaforico; sono queste le pagine più preziose dell’opera, quelle che permettono al lettore la maggior vicinanza e comprensione del disturbo mentale. Il filo conduttore di tutto il manga resta comunque il rapporto con la propria famiglia, ma specialmente con la madre, che evolve da un forte senso di incomprensione e abbandono alla percezione di un amore e un sostegno incondizionati, che permettono a Nagata di concludere il suo lavoro affermando: “ho un sacco di desideri, che sono come le pietre di un sentiero per camminare verso il futuro”.