“Rughe”: intervista a Paco Roca
Sono trascorsi quindici anni dalla prima edizione di Rughe. Da cosa è nata la necessità della nuova “edizione definitiva” della tua opera recentemente tornata sugli scaffali?
Credo che a noi autori faccia sempre paura l’idea di chiudere definitivamente un’opera. Io continuerei a metterci mano, tornerei indietro e ritoccherei cose che non mi piacciono, vignette che penso siano venute male, storie in cui la trama non sembra mai perfetta o dove i dialoghi non sembrano essere i migliori possibili. Ma non si può fare questo continuamente, un’opera nasce e termina ma ci sono situazioni in cui c’è necessità di aggiungere qualcosa: nel caso di Rughe, l’occasione ha coinciso con la lavorazione del film, e questo ha dato il via alla possibilità di raccontare altro attraverso il fumetto, introducendo materiali sui “dietro le quinte” della pellicola nella nuova edizione. La verità è che mi piacerebbe farlo con tutti i miei lavori, non sono mai contento al cento per cento e con il tempo subentrano sempre nuove idee per renderli migliori.
Rughe è uno dei primi esempi di graphic medicine, un tipo di graphic novel che negli ultimi anni si sta diffondendo sempre di più. A suo tempo quella di parlare di una malattia è stata una scelta ragionata, o una semplice coincidenza?
È stato casuale, non c’era alcun piano preordinato, è partito tutto da un fatto personale. Mio padre aveva l’Alzheimer, così come il padre del mio più caro amico. All’epoca era una malattia poco raccontata sia dalla letteratura che dal cinema. La mia intenzione era affrontarla senza uno scopo didattico, senza pensare al lato strettamente medico. Certo, una volta pubblicata un’opera non si può mai sapere fino in fondo l’uso che ne farà il pubblico, e Rughe in effetti si è rivelata utile anche a livello formativo, però non l’avevo previsto a priori. Quello che in realtà mi premeva mettere in luce era la solitudine, che mi sembrava essere il minimo comune denominatore di tutti i degenti delle case di riposo, e il fatto che spesso essi siano messi ai margini perché non riescono a seguire i ritmi della società giovane e adulta.
Per realizzare Rughe sei entrato in punta di piedi in varie residenze per anziani…
Come dicevo, penso che il tema principale di Rughe sia la solitudine, e al tempo ho notato diverse cose. Non ero mai stato in una residenza per anziani, e durante il periodo in cui mi documentavo per produrre il mio libro ne ho visitate diverse, rendendomi conto che sono come dei “cassetti disordinati” dove le persone vengono inserite senza avere nulla in comune, ma ci si ritrovano per motivi diversi, e non tutti sono nella stessa condizione fisica. Per certi aspetti, è come stare in una scuola in cui i bambini non hanno nulla in comune se non l’età. C’era chi vi si trovava perché la famiglia non poteva prendersene cura, chi era lì per non essere un peso per i propri cari. Personalmente, ho provato la sensazione di essere su un’isola su cui erano approdati naufraghi approdati a caso da imbarcazioni diverse.
Qual è il ricordo giù forte che ti hanno lasciato le visite nelle case di riposo?
Visitavo le case di riposo grazie all’ospitalità di amici medici o infermieri, oppure quando amici e famigliari andavano a trovare parenti anziani. Ricordo di una donna che divideva i suoi spazi con una persona affetta da demenza, che quindi non faceva altro che piangere e urlare di continuo, e questa donna chiedeva “Ma perché devo stare qui e vivere con lei?”. Un’altra cosa che mi colpì fu che, nella maggior parte dei casi, gli anziani peggioravano: quando li vedevo in una certa occasione e poi alcuni mesi dopo, si erano aggravati. Il lavoro per un dipendente di una residenza per anziani è davvero duro, lo si fa per una sorta di vocazione.
Immaginiamo che tu abbia letto altri fumetti interessanti su temi analoghi.
Non ricordo di aver letto nulla di questo genere, ci sono state alcune storie che parlavano di persone anziane, come Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet (Coconino Press, 2014, ndr)… però non sono state un riferimento per Rughe. Con questo libro ho cercato di rendere gli anziani protagonisti. È stato complicato fare in modo che la monotonia delle loro vite fosse interessante, che ci fosse intrattenimento nella noia generale. Mi è stato invece d’ispirazione il film giapponese Ju-on: The Grudge, in cui si parla di una soffitta posseduta: mi pareva che l’Alzheimer potesse essere trattato come una storia horror. La struttura narrativa di Rughe è quella dell’avventura di chi giunge in un luogo ostile e, con l’aiuto di qualcuno che già vi si trova, lotta per la propria salvezza.
Dove hai trovato l’ispirazione per la scena finale in cui Emilio comincia ad avere problemi nel riconoscere i volti altrui?
Non so esattamente come mi sia venuta l’idea, immagino si tratti di utilizzare gli strumenti a disposizione nel mondo del fumetto. Con il disegno è possibile astrarsi e cercare una soluzione. Nel film di Rughe il procedimento è stato un altro, ma nel fumetto mi pareva che la scena funzionasse, mi piace sfruttare le possibilità che offrono i diversi linguaggi. Ritengo che noi autori non pensiamo principalmente alla dimensione in cui vogliamo inserire la storia bensì ai personaggi e alle loro vite, e poi è il marketing a situare un fumetto in un genere o l’altro, quindi non siamo fermi nell’idea di star facendo qualcosa di determinato e preciso. È a carico dell’editore seguire una corrente o meno, io voglio raccontare una storia umana. Talvolta si usa il fumetto in modo didattico per spiegare cose complesse che il pubblico non sarebbe di norma disposto a leggere, ma poi il mezzo comunicativo in questione facilita le cose.
Come accennavi, hai preso parte anche tu alla realizzazione del film…
Sì, ho collaborato col regista Ignacio Ferreras, l’ho aiutato col copione e la direzione artistica dandogli vari consigli sul lato della documentazione. Ferreras non ha fatto un lavoro sul campo entrando nelle residenze, non ha avuto un contatto con gli anziani quindi il mio lavoro consisteva anche nello spiegare cose che non avevo potuto inserire nel fumetto, e desideravo riscattare grazie al film.
Un ringraziamento particolare ad Aurora Galbiero per la traduzione