“La storia del topo cattivo”: intervista a Bryan Talbot

“La storia del topo cattivo”: intervista a Bryan Talbot

La storia del topo cattivo, ora in edizione del trentennale per i tipi di Tunué, risale agli Anni 90. Il periodo d’oro per eccellenza del fumetto “mainstream”, con le grandi saghe super-eroistiche e la “bolla” dei milioni di copie vendute per testate come X-Men. Inaudito, per l’epoca, proporre al pubblico una storia dedicata agli abusi sui minori. Come ti è venuta l’idea inizialmente?

Sì, graphic novel oltre i generi come Maus di Spiegelman sono una proposta editoriale relativamente recente… ma con la loro uscita hanno dimostrato proprio in quel periodo che i fumetti potevano essere un ottimo veicolo per storie di ogni genere. All’inizio, pensavo di scrivere una storia sul Lake District inglese, tutt’altro tema rispetto agli abusi sui minori. Ma un giorno, passeggiando nella stazione della metro di Tottenham Court Road, a Londra, notai un’adolescente che elemosinava su un binario. Con suo grande fastidio, un grosso tizio barbuto membro di qualche setta evangelica stava cercando di convincerla a seguirlo in un ostello o da qualche altra parte. Sembrava così imbarazzata… Ripensando a lei qualche ora più tardi, mi venne in mente quello che si diceva su Beatrix Potter, che a quento pare all’età di 16 anni era “di una timidezza straziante”. In quel periodo, a partire dai suoi legami con quei luoghi, stavo facendo ricerche sulla Potter per il mio progetto sul Lake District. Cosi ho fatto due più due, quella alla stazione è diventata la prima scena del libro e da lì è nata tutta la storia. Mi sono detto “E se questa ragazza avesse una connessione con Beatrix Potter e seguisse le orme di Potter fino al Lake District?”. Mentre ci ragionavo, ho sentito la necessità di spiegare perché fosse scappata di casa. Così ho pensato “Perché suo padre abusava di lei”. Molti ragazzi scappano a londra da ogni angolo dell’Inghilterra per sfuggire agli abusi. Dato che non sapevo nulla sull’argomento, ho iniziato a documentarmi in libreria e in biblioteca, rendendomi conto ben presto che il tema degli abusi era troppo importante per essere “solo” uno spunto narrativo pet spingere la protagonista a scappare di casa. Doveva essere il tema portante del libro.

È stato difficile, a suo tempo, trovare un editore interessato al progetto?

È stata una vera impresa. Avevo inviato il proposal con il concept e qualche illustrazione di prova a tutti i principali editori di libri illustrati del Regno Unito, nella speranza di raggiungere un pubblico mainstream al di là del “ghetto” dei comic books. Era un fascicolo molto curato, stampato in 20 copie rilegate con tanto di copertina in acetato sopra la stampa della cover provvisoria e una lettera di accompagnamento: ma questo, ben prima del boom dei romanzi grafici e del fumetto in generale. La metà degli interessati non si sono nemmeno degnati di darmi una risposta. Quelli che lo fecero, rifiutarono la proposta senza neanche esaminarla, probabilmente piantando lì tutto alla prima comparsa della parola “fumetto” nella lettera di accompagnamento… A quel punto decisi di rivolgermi agli editori specializzati. La DC Comics rifiutò, ma il progetto aveva intrigato altre case editrici, in particolare Tundra. Nel febbraio del 1992, mi recai alla convention sui fumetti all’Alexandra Palace di Londra deciso a trovare un editore. In quel periodo stavo ancora disegnando Mask, la storia di Batman che avevo scritto per Archie Goodwin e la collana Legends of the Dark Knight. Finita quella, avrei dato la precedenza al “Topo cattivo”. Arrivo alla convention e mi presento allo stand Tundra, una cosa enorme. Ma lì mi prende lo sgomento, non solo per il gran numero di albi in catalogo, ma anche per la scarsa qualità media: pochi grandi titoli in un mare di robaccia. L’impressione è che pubblicassero qualunque cosa gli capitasse a tiro. Non volevo veder finire La storia del topo cattivo in un contesto tanto mediocre, così ho rinunciato all’incontro con Tundra, tentando la fortuna con Mike Richardson di Dark Horse, col risultato di godermi le ore di anticamera che la sua fitta agenda richiedeva. A suo merito, ha accettato il progetto sui due piedi, un bell’atto di coraggio da parte sua, dato che non assomigliava ad altro che Dark Horse avesse mai pubblicato.

Citavi Mask, il one-shot di Legends Of The Dark Knight in cui Batman è l’alter ego di un Bruce Wayne alcolizzato in preda al delirio. La storia di un topo volante cattivo, per così dire… cosa ricordi di quell’esperienza?

Mask è basato su un’idea avuta da adolescente, negli Anni ’60. Me n’ero ricordato una bella mattina del 1992. Per coincidenza, in quel periodo mi sono ritrovato a cena con lo sceneggiatore Archie Goodwin, fresco di nomina come editor della testata Legends of the Dark Knight. Gli raccontai la storia a grandi linee, e lui mi invitò a fargli avere una proposta. Ma ero convinto che non se ne sarebbe fatto niente, e li per lì me ne dimenticai completamente… Almeno fino a 6 mesi dopo, quando, rivedendolo, mi sentii chiedere “Che fine ha fatto quell’idea per Batman?”. Non solo non scherzava, ma pensava fosse un ottimo spunto. La settimana successiva mi misi al lavoro, e il resto è filato tutto liscio.
Una cosa che ho scoperto negli anni trascorsi a scrivere storie è che ogni lettore le vive a modo suo. Tanti lettori di La storia del topo cattivo mi hanno confidato di aver vissuto la lettura come un sostegno emotivo rispetto agli abusi subiti in gioventù. Con Batman è lo stesso: per alcuni si tratta di una semplice storia di super-eroi, per altri potrebbe avere un effetto terapeutico.

L’impressione è che nelle tue opere le fantasticherie siano un tema ricorrente. Da Luther Arkwright, a 2000 A.D., fino a Grandville, le visioni di mondi lontani sembrano essere la tua cifra stilistica: il che è buffo, considerando il tono serio di La storia del topo cattivo.

In realtà, ho scritto e disegnato altri due romanzi grafici non di genere: Alice in Sunderland e Metronome, più le cinque che ho disegnato su testi di mia moglie Mary, a cominciare da Dotter of Her Father’s Eyes, pubblicata in Italia da Nicola Pesce Edizioni (graphic novel che tratta il tema della malattia mentale della figlia di James Joyce Lucia, degente di un manicomio per trent’anni, ndr). Ma nel caso del “Topo”, le fantasticherie di Helen servono per fornire ai lettori un indizio sul potere della sua immaginazione che, come suggerisce l’omaggio a Beatrix Potter sul finale, la porterà a diventare in prima persona una scrittrice e un’artista.

Mentre ti documentavi per La storia del topo cattivo ti è capitato di incontrare persone che hanno vissuto le stesse esperienze della protagonista Helen? Cos’hai scoperto facendo ricerche sull’argomento?

Non appena la notizia che stavo lavorando sul tema è diventata di dominio pubblico, mi ha davvero stupito il numero di persone che mi hanno contattato per parlarmi degli abusi che avevano subito: si va da amici che conoscevo da anni a persone che ho incontrato alle convention… Erano tutti entusiasti che pubblicassi il libro, perché all’epoca l’argomento era quasi tabù e molti ex ragazzini vittime di abusi pensavano di essere gli unici ad aver vissuto queste drammatiche esperienze, quindi erano restii a condividerle per paura di non essere presi sul serio. Resta il fatto che è importante parlare di questi temi e far sì che la gente ne parli, in modo da rompere la cultura omertosa tipica di queste esperienze.

Cosa ti ha spinto a utilizzare personaggi reali come reference per La storia del topo cattivo?

Quando ho realizzato che quella che avevo tra le mani era una storia per un pubblico mainstream, lo stile del fumetto si è evoluto in una chiave molto più realistica rispetto a tutta la mia produzione precedente. Per facilitare la lettura a chi non ha l’occhio allenato ai fumetti, ho scelto deliberatamente la linea chiara. Poi ho cominciato a raccogliere reference fotografiche utilizzando amici e conoscenti come modelli e ambientando la maggior parte degli eventi in luoghi reali. Quando lavori su storie fantascientifiche o fantastiche, le licenze poetiche sono d’obbligo, ma nel caso di La storia del topo cattivo puntavo al massimo realismo.

Qual è il tuo metodo di lavoro? Dato che sei un artista “lento”,  immagino che tu sia molto attento nello storyboard. Oppure parti dalla sceneggiatura?

Normalmente, impiego circa tre giorni per scrivere, disegnare e colorare una tavola. Parto sempre dalla sceneggiatura, visualizzando il tutto a mente senza passare da uno storyboard. Negli ultimi 15 anni, ho capito di poter saltare quello step passando direttamente al disegno.

Lo humour ha un ruolo molto importante nelle tue storie, anche una storia dai contorni drammatici come il “Topo” ha delle parti più leggere, per esempio quelle ispirate a Beatrix Potter…

Tutte le storie hanno bisogno di luci e ombre. Senza un costante contrappunto tra scene e dialoghi, si finisce per annoiare il lettore, che si tratti di un’avventura, una commedia o un racconto “ambizioso”. La monotonia stufa. Di mio, mi considero uno sceneggiatore abbastanza intuitivo: se c’è spazio per un po’ di humour, anche in una situazione drammatica, ce lo metto.

Pensi mai di tornare da Helen per un seguito di La storia del topo cattivo?

Circa 4 anni fa, avevo iniziato ad accarezzare l’idea di un sequel ambientato vent’anni dopo la fine dell’originale, con Helen diventata una scrittrice per bambini trentaseienne che fa amicizia con una giovane senzatetto. Ci ho lavorato fino ad accumulare una cartella di appunti sul tema, prima di rendermi conto che forse era meglio lasciar stare. Ho il timore che un sequel potrebbe guastare l’effetto dell’originale, soprattutto per il rischio di mostrare che la vita di Helen dopo La storia del topo cattivo non è tutta rose e fiori. Un abuso implica postumi psicologici che possono durare tutta la vita, e il seguito potrebbe dimostrarlo.

Parlaci dei tuoi prossimi progetti…

Sono a metà delle 177 tavole di un prequel di Grandville ambientato 23 anni prima e interpretato dal mentore dell’ispettore LeBrock, Stamford Hawksmoor, apparso nel quinto volume. Data l’ambientazione antecedente alla rivoluzione industriale e quindi allo steampunk della serie originale, sarà un’opera molto diversa. Non sarà ambientata in una Belle Époque alternativa, precederà l’Art Nouveau e avrà il sapore acquerellato e seppiato dei vecchi dagherrotipi, invece dei vistosi colori digitali di Grandville. Quindi, sì: un volume molto vittoriano, ambientato a Londra, tra carrozze e nebbia densa quanto zuppa di piselli, molto Sherlock Holmes.

Intervista a cura di Andrea Voglino – novembre 2023

Un Natale a tutta Graphic Medicine

Un Natale a tutta Graphic Medicine

Due nuove sezioni sul nostro sito: “Diventa socio” e “Sostienici”. Dopo due anni di servizio, Graphic Medicine Italia apre a forze fresche con il proposito di allargare le sue attività, ampliare il proprio raggio d’azione e “mettere a terra” nuove iniziative che vadano oltre la Rete e l’ambito strettamente accademico.

Perché associarsi lo spieghiamo qui.  Ma anche senza associarsi è possibile sostenere l’Associazione con una donazione anche minima: con una cifra simbolica, si può contribuire a migliorare il sito e favorire la crescita di Graphic Medicine Italia. Due ottime idee anche per un “pensiero di Natale” alternativo all’insegna della cultura, della voglia di fare e della consapevolezza.

Calvin & Hobbes © Universal Press Syndicate 2023

Atcom Sant’Orsola: il valore di un dono

Atcom Sant’Orsola: il valore di un dono

Per questo Natale 2023 il dono del Centro Riferimento Trapianti dell’Emilia-Romagna è una fiaba delicata e profonda.
Un racconto illustrato da Giorgio Serra, La matitaccia, in collaborazione con Atcom S. Orsola, con la storia di Luca Passignani, per sensibilizzare sul tema di #donazione e #trapianto e raccontare, anche ai più piccoli, il mistero della malattia e il valore di un dono inestimabile: il cuore.
Leggi o ascolta la favola e condividila per i tuoi auguri a questo link.
Grazie agli autori e all’Associazione Nazionale Trapiantati di Cuore “Tetto Amico” che ha promosso la realizzazione di questo progetto. Un ringraziamento anche a Barbara e alla figlia Francesca che hanno espresso il bisogno di raccontare questa storia.
#moltiplicalavita con #unasceltaconsapevole”

Memorie dal Nord America: la cronaca della conferenza internazionale Graphic Medicine

Memorie dal Nord America: la cronaca della conferenza internazionale Graphic Medicine

Con affidabile puntualità, si è conclusa anche questo anno la conferenza internazionale organizzata dal Collettivo internazionale Graphic Medicine, dal titolo “Encounter and Inviation”. Dopo aver occupato i magnifici edifici nella ventosa Chicago (2022), quest’anno è toccata alla vibrante Toronto ospitare artist*, accademic*, professionist* (in più di un caso, combinando i tre ruoli in un’unica figura) che moss* dalla passione, ormai nota, per i fumetti nel racconto sanitario hanno riempito il campus della University of Toronto con le loro storie. Lo sguardo europeo si è particolarmente posato sulla decisione, per certi aspetti inedita, di ospitare keynote in grado di sensibilizzare il pubblico rispetto alla condizione di salute esperita nelle comunità native. Per fare solo alcuni nomi: Justice Seidel, Greg Spence, Rachel Corston, Mena Gewarges. Si è dunque deciso di prestare attenzione all’utilizzo della Graphic Medicine in contesti certamente meno mainstream. La conferenza è stata gestita ibridamente, tra un garantito off line e un sempre imprevedibile on line.

Un’altra novità che la conferenza del 2023 ha portato riguarda il premio annuale GMIC Awards. Quest’anno, e per la prima volta, il Collettivo Internazionale ha deciso di creare due categorie distinte: Long form e Short form.

Nella prima, vincitore di quest’anno, è Ronan and the Endless Sea of Stars. Lo sceneggiatore Rick Louis, ben coadiuvato dalla vignettista di testate quali The Wall Street Journal e The Washington Post Lara Antal, condivide la storia breve e struggente di suo figlio, Ronan, nato con la Tay-Sachs, una malattia neurologica genetica e mortale. La storia ripercorre la nascita del piccolo, la diagnosi, le tappe fondamentali raggiunte, l’impatto sul matrimonio di Louis e l’inevitabile morte di Ronan. Il graphic non risparmia il dolore di un padre alternando anche momenti di sagace ironia.

Il Collettivo durante un momento della Conference

Inoltre, i giudici hanno ritenuto che le candidature fossero così valide e il processo decisionale così impegnativo da richiedere il riconoscimento di una menzione d’onore per ogni categoria. Sempre nella categoria Long form menzioniamo: Headland, la storia romanzata di Ruth, affetta da demenza, e basata sulla nonna dell’autrice Kate Schneider.

Chi invece ha vinto nella categoria Short form è Vaccinated at the Ball, il fumetto educativo che descrive l’uso delle House Balls (in cui si riuniscono persone LGBTQ+ ispaniche, afroamericane etc.) come luogo per le vaccinazioni COVID-19. Il giornalista Josh Neufeld usa la forma del fumetto per raccontare la storia vera di uno sforzo compiuto a Chicago l’anno scorso per aumentare i tassi di vaccinazione verso alcune comunità spesso discriminate.

La novità più succosa, almeno per noi europei, alla fine: nel 2024, il Collettivo internazionale Graphic Medicine farà tappa nel Vecchio Continente, nello specifico in Irlanda. Ancora non si conosce il tema della conferenza, ma certamente ci aspettiamo una partecipazione maggiormente nutrita da parte dei peniṡolani!

Nello scatto realizzato a Kensington Market, da sinistra a destra, l’autore Matteo Farinella, la VP di Graphic Medicine Italia Veronica Moretti, il Presidente Stefano Ratti, Brian Callender (Università di Chicago) e un sorridente Michael Green, autore del selfie di rito.

“Rughe”: intervista a Paco Roca

“Rughe”: intervista a Paco Roca

Sono trascorsi quindici anni dalla prima edizione di Rughe. Da cosa è nata la necessità della nuova “edizione definitiva” della tua opera recentemente tornata sugli scaffali?
Credo che a noi autori faccia sempre paura l’idea di chiudere definitivamente un’opera. Io continuerei a metterci mano, tornerei indietro e ritoccherei cose che non mi piacciono, vignette che penso siano venute male, storie in cui la trama non sembra mai perfetta o dove i dialoghi non sembrano essere i migliori possibili. Ma non si può fare questo continuamente, un’opera nasce e termina ma ci sono situazioni in cui c’è necessità di aggiungere qualcosa: nel caso di Rughe, l’occasione ha coinciso con la lavorazione del film, e questo ha dato il via alla possibilità di raccontare altro attraverso il fumetto, introducendo materiali sui “dietro le quinte” della pellicola nella nuova edizione. La verità è che mi piacerebbe farlo con tutti i miei lavori, non sono mai contento al cento per cento e con il tempo subentrano sempre nuove idee per renderli migliori.

Rughe è uno dei primi esempi di graphic medicine, un tipo di graphic novel che negli ultimi anni si sta diffondendo sempre di più. A suo tempo quella di parlare di una malattia è stata una scelta ragionata, o una semplice coincidenza?
È stato casuale, non c’era alcun piano preordinato, è partito tutto da un fatto personale. Mio padre aveva l’Alzheimer, così come il padre del mio più caro amico. All’epoca era una malattia poco raccontata sia dalla letteratura che dal cinema. La mia intenzione era affrontarla senza uno scopo didattico, senza pensare al lato strettamente medico. Certo, una volta pubblicata un’opera non si può mai sapere fino in fondo l’uso che ne farà il pubblico, e Rughe in effetti si è rivelata utile anche a livello formativo, però non l’avevo previsto a priori. Quello che in realtà mi premeva mettere in luce era la solitudine, che mi sembrava essere il minimo comune denominatore di tutti i degenti delle case di riposo, e il fatto che spesso essi siano messi ai margini perché non riescono a seguire i ritmi della società giovane e adulta.

Per realizzare Rughe sei entrato in punta di piedi in varie residenze per anziani…
Come dicevo, penso che il tema principale di Rughe sia la solitudine, e al tempo ho notato diverse cose. Non ero mai stato in una residenza per anziani, e durante il periodo in cui mi documentavo per produrre il mio libro ne ho visitate diverse, rendendomi conto che sono come dei “cassetti disordinati” dove le persone vengono inserite senza avere nulla in comune, ma ci si ritrovano per motivi diversi, e non tutti sono nella stessa condizione fisica. Per certi aspetti, è come stare in una scuola in cui i bambini non hanno nulla in comune se non l’età. C’era chi vi si trovava perché la famiglia non poteva prendersene cura, chi era lì per non essere un peso per i propri cari. Personalmente, ho provato la sensazione di essere su un’isola su cui erano approdati naufraghi approdati a caso da imbarcazioni diverse.

Qual è il ricordo giù forte che ti hanno lasciato le visite nelle case di riposo?
Visitavo le case di riposo grazie all’ospitalità di amici medici o infermieri, oppure quando amici e famigliari andavano a trovare parenti anziani. Ricordo di una donna che divideva i suoi spazi con una persona affetta da demenza, che quindi non faceva altro che piangere e urlare di continuo, e questa donna chiedeva “Ma perché devo stare qui e vivere con lei?”. Un’altra cosa che mi colpì fu che, nella maggior parte dei casi, gli anziani peggioravano: quando li vedevo in una certa occasione e poi alcuni mesi dopo, si erano aggravati. Il lavoro per un dipendente di una residenza per anziani è davvero duro, lo si fa per una sorta di vocazione.

Immaginiamo che tu abbia letto altri fumetti interessanti su temi analoghi.
Non ricordo di aver letto nulla di questo genere, ci sono state alcune storie che parlavano di persone anziane, come Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet (Coconino Press, 2014, ndr)… però non sono state un riferimento per Rughe. Con questo libro ho cercato di rendere gli anziani protagonisti. È stato complicato fare in modo che la monotonia delle loro vite fosse interessante, che ci fosse intrattenimento nella noia generale. Mi è stato invece d’ispirazione il film giapponese Ju-on: The Grudge, in cui si parla di una soffitta posseduta: mi pareva che l’Alzheimer potesse essere trattato come una storia horror. La struttura narrativa di Rughe è quella dell’avventura di chi giunge in un luogo ostile e, con l’aiuto di qualcuno che già vi si trova, lotta per la propria salvezza.

Dove hai trovato l’ispirazione per la scena finale in cui Emilio comincia ad avere problemi nel riconoscere i volti altrui?
Non so esattamente come mi sia venuta l’idea, immagino si tratti di utilizzare gli strumenti a disposizione nel mondo del fumetto. Con il disegno è possibile astrarsi e cercare una soluzione. Nel film di Rughe il procedimento è stato un altro, ma nel fumetto mi pareva che la scena funzionasse, mi piace sfruttare le possibilità che offrono i diversi linguaggi. Ritengo che noi autori non pensiamo principalmente alla dimensione in cui vogliamo inserire la storia bensì ai personaggi e alle loro vite, e poi è il marketing a situare un fumetto in un genere o l’altro, quindi non siamo fermi nell’idea di star facendo qualcosa di determinato e preciso. È a carico dell’editore seguire una corrente o meno, io voglio raccontare una storia umana. Talvolta si usa il fumetto in modo didattico per spiegare cose complesse che il pubblico non sarebbe di norma disposto a leggere, ma poi il mezzo comunicativo in questione facilita le cose.

Come accennavi, hai preso parte anche tu alla realizzazione del film…
Sì, ho collaborato col regista Ignacio Ferreras, l’ho aiutato col copione e la direzione artistica dandogli vari consigli sul lato della documentazione. Ferreras non ha fatto un lavoro sul campo entrando nelle residenze, non ha avuto un contatto con gli anziani quindi il mio lavoro consisteva anche nello spiegare cose che non avevo potuto inserire nel fumetto, e desideravo riscattare grazie al film.

Un ringraziamento particolare ad Aurora Galbiero per la traduzione

Rughe: la nostra recensione

Donazione del corpo e Graphic Medicine

Donazione del corpo e Graphic Medicine

Una nuova pagina per Graphic Medicine Italia: si inaugura la pubblicazione dei papers accademici dedicati alla medicina narrativa a fumetti. Al centro della scena nella ricerca in lingua inglese firmata dai membri fondatori di Associazione Culturale Graphic Medicine Italia Stefano Ratti, Veronica Moretti e Alice Scavarda, il rapporto tra donazione del corpo e Graphic Medicine.

Il documento è disponibile per il download nella sezione “risorse”.

“Triplo guaio”: intervista a Isabella Di Leo

“Triplo guaio”: intervista a Isabella Di Leo

Dal tuo “Triplo guaio” se non sbaglio sono ormai trascorsi cinque anni. Immaginiamo che effetto ti faccia rileggere il tuo fumetto alla luce delle esperienze fatte da allora…
Ammetto che non lo rileggo molto spesso, non ricordo infatti l’ultima volta che l’ho fatto. “Triplo Guaio” è nato come uno sfogo in un momento di difficoltà ma ora la mia mente ha bisogno di guardare avanti. Per un anno e mezzo, mentre facevo le cure, mi è stato insegnato a vivere alla giornata, non pensando troppo al futuro. Ora invece ho tanta voglia di futuro e non mi rivedo più tanto nella me del 2018/19.

Dato che “Triplo Guaio” è nato sul Web, viene da chiedersi se dietro ci fosse una forma di pianificazione o se tutto sia nato un po’ per caso, accumulando vignette senza pensarci troppo.
Come ho accennato nella precedente risposta è stato uno sfogo. Pubblicavo vignette e le condividevo su Facebook e le facevo leggere ai miei amici, poi ho cominciato a condividerle all’interno di gruppi dove altre donne stavano affrontando quello che stavo affrontando io e vedendo il loro interesse nelle mie vignette ho cercato di riuscire a farne una alla settimana. Il problema delle pagine social è che mano a mano il tuo lavoro si perde nel tempo, ho deciso di aprire un sito in modo che chiunque cerchi un sorriso in mezzo all’oscurità possa sempre trovarlo.

Com’è nata l’idea di portare il fumetto dalla tua pagina Facebook, dov’era nato, alla sua forma definitiva di volume?
Volevo uscire dai social e andare lì dove c’è più bisogno: nelle sale d’attesa degli ospedali. Ho pensato di propormi a BeccoGiallo perché mi sembrava adatto per l’argomento e loro si sono dimostrati subito interessati. Il fumetto ha visto la luce a luglio del 2019, un mese dopo la fine delle mie cure, è stato un bel premio!

Dicci di più sull’apporto dell’editore nella realizzazione del volume rispetto a quanto già pubblicato su internet.
Mi è stato chiesto di aggiungere dei capitoli in più nel libro in maniera da renderlo più corposo, è stata l’occasione per aggiungere un po’ di trama, un filo comune, e non solo vignette comiche fine a sé stesse. Riguardo le modifiche, invece, sono state tagliate un paio di cosine perché secondo BeccoGiallo il volume si sarebbe letto più facilmente, ma quelle cose si possono trovare tranquillamente sul mio sito.

Quali stimoli o valori aggiunti speri di portare di portare a chi legge il tuo fumetto per la prima volta?
Spero solo di portare una risata in un momento difficile, a me l’autoironia ha aiutato davvero tantissimo a sopravvivere in quel periodo della mia vita… Magari può aiutare anche qualcun altro! Quando mi scrivono via messaggio privato per ringraziarmi di aver tenuto loro compagnia con le mie vignette mi commuovo sempre.

Dal tuo punto di vista di autrice, quale credi possa essere l’apporto del fumetto nell’ambito della medicina narrativa?
Più ce n’è, meglio è! È ormai provato che l’aspetto psicologico è importantissimo per affrontare al meglio le cure, quindi per quanto mi riguarda: avanti tutta!

Leggendo anche altri fumetti al femminile sullo stesso tema, come “Cancer Vixen” o “La storia delle mie tette” salta agli occhi come “fil rouge” un ampio ricorso a iperboli ironiche.
Altro non è che un meccanismo di difesa che il nostro cervello mette in campo per aiutarci a non lanciarci dalla finestra quando arriva il momento di affrontare una cosa simile. Non tutti i pazienti affrontano la malattia nella stessa maniera, e farlo con autoironia non vuol dire automaticamente che passiamo le giornate a spassarcela dalle risate. Senza ombra di dubbio a me, e a molti altri pazienti, la cosa ha giovato.

Come è nata l’idea di rappresentare il tuo “guaio” nella forma che gli hai dato nel fumetto – un incrocio tra un gorilla, un tricheco e un mostrone un po’ manga?
Chiacchierando con amici scherzavamo sul fatto che un sacco di artisti giapponesi creano personaggi da cose non fisiche, ad esempio che aspetto avrebbero i supermercati o le compagnie aeree se fossero personaggi umani. Quindi mi sono chiesta: che aspetto avrebbe il mio cancro se fosse un personaggio? L’ho sempre visto un po’ come un parassita e trovai su google immagini di un parassita che aveva occhioni e zanne… e così è nato QBM!

Segui il mercato del Graphic Medicine? C’è qualche fumetto sul genere che hai trovato interessante, e perché?
Mi fu consigliato “Il cancro mi ha resa più frivola” e ha esattamente il mio tipo di umorismo, mi ha divertita davvero molto!

Ora stai lavorando a un fumetto su Mel Brooks, un’ulteriore prova del fatto che la risata può essere terapeutica.
“L’ironia è solo un’altra difesa contro l’universo” dice Mel Brooks, mi rivedo molto nella sua filosofia di vita, sarà perché l’umorismo ebraico è molto auto-ironico e psicologico. E poi quest’anno tocca il traguardo dei 97 anni, se dice che ridere allunga la vita gli credo!

“Triplo guaio”: la recensione

“La SMAgliante Ada”: intervista a Danilo Deninotti

“La SMAgliante Ada”: intervista a Danilo Deninotti

“Come nasce una patografia”? È questa la domanda implicita che Graphic Medicine Italia rivolge a tutti gli autori di fumetti in ascolto, un dialogo utile a far luce sui meccanismi inediti che reggono le meccaniche di tutte le opere di Graphic Medicine e al contempo una lettura più approfondita dei fumetti stessi. Apre questa serie di interviste lo sceneggiatore ed editor Danilo Deninotti, autore e coordinatore del progetto multimediale per ragazzi “La SMAgliante Ada” dedicato all’atrofia muscolare spinale, ricco progetto crossmediale “free press” che di recente ha completato la sua corsa con il terzo volume.

Ci pare di aver capito che il terzo “Ada” concluda la serie. È effettivamente così o il progetto è destinato a rinnovarsi in futuro?

Confermo, il terzo “Ada” chiude la serie di volumi a fumetti. Tutte le linee narrative sono state portate a termine e le tematiche educational messe sul piatto all’inizio della lavorazione sono state tratte. Non nascondo che siamo profondamente orgogliosi del lavoro fatto e felici del suo successo, che ha superato anche le più rosee aspettative, in termini di diffusione, copertura mediatica, impatto sul pubblico e premi ricevuti.
Certo, quando siamo partiti sapevamo che potevamo fare bene, le premesse (fiducia, libertà creativa, serietà e professionalità di tutti gli attori coinvolti, volontà di collaborare per l’obiettivo finale, sostegno economico solido) c’erano tutte; ma non immaginavamo che sarebbe andata così bene; tanto, appunto, da realizzare un trittico che ci tenesse impegnati per tre anni.
E proprio in virtù dell’impatto di cui sopra, e delle potenzialità che ancora ci sono e vediamo in “Ada” e nel suo mondo narrativo, le avventure della nostra eroina non si fermeranno certo qui. Siamo infatti al lavoro per testare nuove strade e ragionare e pre-produrre nuove idee e soluzioni per portare Ada in altri ambiti e iniziative.

Ada comprende fumetto, edutainment, animazione… un progetto che stupisce non solo per la varietà dei temi ma anche per la capillarità delle proposte. L’approccio crossmediale è stata una scelta “a monte” o è nato strada facendo?

Direi entrambe le cose, sommate alla capacità di adattarci e cavalcare gli eventi e le situazioni che ci siamo trovati ad affrontare. Ada è infatti un progetto pensato prima del Covid, che è stato in grado di vivere, attraversare e superare la pandemia — proprio in virtù dell’idea solida che c’era alla base e alla capacità di tutti gli attori coinvolti di trovare nuove idee e spunti in corso d’opera — e di saper poi anche rispondere alle richieste e agli stimoli che ricevevamo anno dopo anno.
Chiaramente siamo partiti dall’idea del volume a fumetti. Ma da subito abbiamo pensato di includere nel libro anche una parte di edutainment e di affrontarlo con lo stesso linguaggio, nel modo più serio e pazzo possibile.
L’animazione (realizzata con Studio Shamun) è stata la risposta alla necessità di trovare qualcosa di diverso e impattante, visto che la conferenza stampa del lancio del primo libro doveva essere obbligatoriamente svolta in remoto, utilizzando un video di presentazione del progetto.
Infine, i laboratori didattici (sia in presenza che attraverso un video kit pensato per insegnati e studenti) e i contest nelle scuole sono stati un modo per dare nuova linfa al progetto e per coinvolgere ancora di più il pubblico principale a cui è rivolto il progetto.

Sempre su quanto detto sopra: quali canali avete avuto a disposizione per sostenere economicamente il tutto?

Il progetto è nato ed è sostenuto grazie al contributo non condizionato di Roche Italia. E devo dire che raramente ho — abbiamo, mi sento di parlare a nome di tutto il team — potuto godere di una libertà creativa così ampia: nessuna imposizione, nessuna pressione, nessuna censura. E questo è anche merito di Sec and Partners (nelle persone di Alessandra Campolin e Martina Barazzutti) che ha curato il coordinamento.

Da un punto di vista creativo, come avete organizzato il lavoro di scrittura e la collaborazione con NeMO e Associazione Famiglie SMA?

Durante la lavorazione del primo volume — in cui dovevamo prima di tutto dar vita ai personaggi, al mondo narrativo e trovare spunti e idee per innescare le varie vicende — abbiamo anche posto le basi per un metodo che abbiamo poi “formattato” a partire dal secondo anno.
Ovvero, per prima cosa i referenti di NeMO e di Famiglie SMA (che fungevano da Direzione Scientifica) ragionavano quali potessero essere gli argomenti o gli ambiti tematici per poi presentarceli (a me, Roberto Gagnor, Giorgio Salati — in veste di sceneggiatori — e a Giuliano Cangiano — in quanto concept artist). Dopo questa prima riunione collettiva passavamo all’ideazione dei soggetti, che è sempre avvenuta in brainstormig tra noi 4 “papà” di Ada. I soggetti venivano poi approvati dai referenti di NeMO e di Famiglie SMA e si passava alla parte di sceneggiatura. Il processo prevedeva altri due passaggi: ovvero la visione e l’approvazione della storia visualizzata sotto forma di storyboard, cioè degli schizzi di tavole e disegni, e poi un okay finale a tavole complete.
Lato scrittura, abbiamo poi perseguito due idee per noi fondamentali. Ovvero che al di là delle trame verticali dei singoli episodi ci fosse anche una storyline orizzontale che unisse le storie di ogni volume; e che — anno dopo anno — Ada crescesse, cosa che ci ha portato a realizzare storie man mano più complesse e ricche.

Lavorare per un target molto specifico come quello dei bambini spesso comporta una necessità di “delicatezza” difficile da perseguire quando si ha a che fare con i temi legati alla disabilità. Al di là delle scelte grafiche e cromatiche del caso, come avete affrontato questa sfida creativa?

Per prima cosa ha pesato molto l’esperienza (anche umana) che Cangiano, Gagnor, Salati ed io abbiamo come autori sia di fumetti per bambini e ragazzi per “Topolino” che di storie che affrontano temi sociali. E poi, abbiamo studiato e fatto ricerca sulla SMA e — soprattutto — abbiamo incontrato e parlato in maniera profonda con le famiglie, i bambini, i medici e le associazioni che vivono quotidianamente la realtà di questa disabilità. Questo ci ha permesso di empatizzare al massimo e quindi di non porci filtri circa aspettative e paure reali quando si è trattato di scrivere le storie. Storie in cui, è chiaro, la disabilità c’è e si vede, ma non è la protagonista, bensì una caratteristica della protagonista. Che chiaramente influisce sulla sua quotidianità, sulle sue relazioni, sul suo immaginare il futuro; ma non la definisce in quanto personaggio.
Forse, la delicatezza a cui ti riferisci appare lampante nel momento in cui, leggendo le storie, traspare da una parte che il lavoro “di finzione” che abbiamo fatto è davvero collegato al vissuto della disabilità senza alcun tipo di pietismo; e dall’altra parte che i temi protagonisti delle vicende sono così universali che tutti i bambini e i ragazzi vi si possono identificare — che siano o meno affetti dalla SMA o disabili.

Puoi raccontarci come siete riusciti a radunare il fantastico “team creativo” che ha dato vita al progetto?

Tutto è partito a fine ottobre 2019. Quando sono stato chiamato per iniziare a immaginare il progetto e quindi a mettere in piedi e coordinare lato artistico il team che l’avrebbe realizzato. Mi sono state concesse fiducia e libertà massime, e io ne ho approfittato. Chiamando uno dopo l’altro le persone che immaginavo più giuste per il progetto, colleghi con cui avrei sempre voluto lavorare.
Per primo ho chiamato Giuliano Cangiano (ci eravamo sempre e solo sfiorati negli anni ed era un mio pallino iniziare a lavorare con lui) per affidargli la paternità visiva del progetto e farmi aiutare nel coordinamento dei disegnatori. Poi ho chiamato Roberto Gagnor e Giorgio Salati, colleghi a “Topolino” e che, soprattutto, immaginavo si sarebbero potuti esprime al meglio e dare il massimo in un lavoro di gruppo. Noi quattro siamo, come ti dicevo, gli ideatori del personaggio e del mondo narrativo e visivo.
Lato disegno, ho seguito la stessa discriminante: affidare la realizzazione delle storie (oltre che a Giuliano) ad altri 4 disegnatori che stimo, assolutamente nelle corde del progetto, in grado di mettersi al servizio dell’idea aggiungendo del loro e con cui sia io che Roberto e Giorgio ci eravamo già trovati (bene, benissimo) a lavorare.
Anche per quanto riguarda la produzione vale lo stesso discorso di fondo: ho avuto la libertà di poter coinvolgere chi pensavo ci avrebbe potuto seguire al meglio. Ho quindi coinvolto Edizioni BD, non solo perché è una casa editrice ormai storica e tra gli attori fondamentali per il fumetto in Italia (a cui sono anche legato dal mio esordio nel mondo dei fumetti), ma perché sapevo di potermi rapportare con loro in modo diretto e che avrebbero affrontato il progetto in maniera impeccabile.

Quale pensi possa essere il contributo specifico del fumetto nel campo della medicina narrativa?

Il fumetto è un linguaggio che sa mettersi al servizio di molti ambiti. E grazie al suo essere non rappresentazione ma interpretazione può raccontare storie in maniera unica e diversa.
Inoltre, è un mezzo economico, forse il più economico. Nel senso che per raccontare una storia o rappresentare e descrivere un tema puoi coinvolgere cast stellari, lavorare con gli effetti speciali più coinvolgenti e spaziare tra universi infiniti (verosimili o immaginari). Non hai limiti.
Infine c’è un tema di immediatezza e coinvolgimento che solo il linguaggio del fumetto è in grado di offrire.

Per restare in argomento: ti piace la Graphic Medicine? A quali volumi tra quelli usciti in questi anni, se li hai letti, ti senti particolarmente legato, e perché?

Devo ammettere la mia ignoranza. Prima dell’arrivo qui da noi del progetto Graphic Medicine Italia, non ero a conoscenza della definizione e della collocazione di determinate opere in questo ambito. Chiaramente, però, ho letto parecchi volumi che sono inclusi nel filone, a partire ovviamente da “Rughe” di Paco Roca.

 

 

 

 

 

“Un nido di Nebbia”, Andrea Voglino e Ariel Vittori, Tunué, 2022, 136 pagine, colore, cartonato, € 18,00

“Un nido di Nebbia”, Andrea Voglino e Ariel Vittori, Tunué, 2022, 136 pagine, colore, cartonato, € 18,00

Ci sono gravidanze che durano degli anni e genitorialità che si acquisiscono tra tribunali e uffici con assistenti sociali. Ci sono genitori che non insegnano a parlare al nascituro, ma imparano una nuova lingua per poter comunicare. Un nido di nebbia racconta una di queste storie. In particolare, ci intromettiamo nella vita di Davide e Valeria, una coppia come altre, che per diverse ragioni (perché sì, i motivi sono tanti!) decide di intraprendere il percorso dell’adozione. Di questo tema si discute parecchio, spesso ornandolo con troppi sorrisi e certezze e nascondendo quelli che sono i fastidi, le problematiche e persino i ripensamenti. Ma Andrea Voglino e Ariel Vittori ci raccontano con onestà ed eleganza tutti i passaggi della strada dell’adozione. Mettere in discussione la propria vita quotidiana, andando a trascorrere dei mesi in America Latina per conoscere Gabriel, il bambino che, eventualmente, potrà far parte della loro famiglia. Perdere un lavoro, perché nella società della performance non sono ammissibili assenze e distrazioni così prolungate. Sentirsi completamente inadeguati e impreparati al nuovo ruolo, come se fossimo jukebox da cui estrarre amore al bisogno. Mettere in discussione la coppia, forse la famiglia, forse se stessi. E poi le difficoltà nel gestire una nuova relazione con il figlio, qualcuno che avrà sempre delle domande spinose e che affronterà, come ogni persona che cresce, momenti difficili che a volte a torto, a volte con ragione, vengono imputate al “Si ma è normale, è stato adottato”. Eppure questo graphic novel arriva dritto come un pugno gentile, trasuda tenacia ed amore in ogni singola pagina. Una guida che dovrebbe essere accolta, letta e sussurrata non solo per le coppie che decidono di andare avanti in un simile percorso – e che magari hanno anche la fortuna di riuscirlo a fare. Ma anche da tutte le persone che stanno di fianco, i nonni, gli zii, i parenti, i compagni di scuola, le maestre, gli amici e tutti gli sconosciuti che Davide, Valeria e Gabriel incontreranno nel loro percorso.
Se, come ci insegnava il Pascoli, il nido rinvia analogicamente al tema della casa, al tepore della famiglia e al luogo in cui rinchiudersi per sfuggire al male che sta fuori è altresì vero che è sempre lo stesso autore che ci ricorda che solo la nebbia, simbolo di chiusura dal mondo e dalle sue minacce, può difendere il suo nido di affetti familiari.

“Loop: indietro non si torna”, Il Progetto Giovani e Mammaiuto Lab, Rizzoli Lizard, 2013, 144 pagine a colori, brossura, € 15.

“Loop: indietro non si torna”, Il Progetto Giovani e Mammaiuto Lab, Rizzoli Lizard, 2013, 144 pagine a colori, brossura, € 15.

Loop è un fumetto speciale, perché speciale è il luogo in cui è nato: settimo piano dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, reparto di Pediatria Oncologica. Qui, nell’ambito del Progetto Giovani, i pazienti adolescenti costruiscono progetti, amicizie, relazioni e immaginano un futuro, perché comunque vada dopo la diagnosi indietro non si torna. E ce lo ricordano anche le biografie in fondo al volume, ritratto di un gruppo che ha perso alcuni dei suoi componenti a causa della malattia. Ma chi resta si assume la responsabilità di testimoniare, raccontando una storia che ci insegna che solo uniti si vince. I protagonisti sono sette adolescenti tra i 17 e i 20 anni che frequentano lo stesso ospedale e vengono guidati e sostenuti nel loro percorso dallo psicologo Pietro Geni. Come nella migliore tradizione supereroistica, i ragazzi e le ragazze vengono da trascorsi travagliati, anche a causa delle diverse patologie che li affliggono. Ma prima che pazienti sono normali adolescenti che si muovono tra la scuola, la famiglia, gli amici e le prime cotte, e a cui la malattia non riesce a togliere la voglia di vivere e coltivare le proprie passioni: videogame, libri fantasy, il basket, la musica (che fa da colonna sonora a molti momenti del fumetto)… Geni li riunisce in un gruppo, gli “Hospital youngsters”, dopo aver scoperto che sono dotati di “talenti particolari”, con la speranza di aiutarli ad accettare e gestire la loro condizione. Tuttavia, non tutto il personale ospedaliero è dalla loro parte, e il gruppo comincia misteriosamente a disgregarsi. Sarà compito degli adulti sfruttare i propri poteri speciali per ridare fiducia ai ragazzi, affinché possano ritrovare l’unità perduta e sconfiggere il nemico in agguato.
Loop è inizialmente nato come libro ed è stato trasformato in romanzo grafico strada facendo, con sceneggiatura di Giorgio Trinchero e disegni di Claudia “Nùke” Razzoli e Francesco Guarnaccia del collettivo Mammaiuto.